Dall’orecchio alle mani

Conclusasi il giorno del mio compleanno, la mostra su Constantin Brancusi presso Bozar, a Bruxelles, sono riuscita a visitarla per un pelo il primo febbraio*, da sola.

La mostra era cara e facile, strutturata su linee cronologiche e tematiche, e scivolava via svelta, dietro alla voce dell’audioguida: gli spazi del Bozar sono ampli e la disposizione permetteva di muoversi con semplicità, ma soprattutto io avevo tutto il tempo del mondo per fermarmici a riflettere su un paio di cose rispetto a come visito le mostre.

L’audioguida è un tema a sé negli studi di educazione museale e nella prassi dei musei (qui una cosa del Met sulle proprie) e io cerco sempre di ascoltarle.

A livello astratto e di analisi museologica l’audioguida condiziona, orienta e costringe lo sguardo, esplicita il discorso che la museografia non ha definito del tutto, costruendo la gerarchia visuale e prossemica che seguirà il pubblico, e può facilmente essere usata per indirizzare i flussi dei visitatori. Dal punto di vista pratico e estetico l’audioguida è spesso brutta, grande, senza istruzioni e con molti tasti inutili; quando è attiva crea un rumore di sottofondo che contrasta con il silenzio degli spazi museali, ostacola la visita di chi si muove libero, crea file o raggruppamenti di visitatori attorno alle opere che hanno il numerino e, essendo molto simile a un telefono, è facile che sia percepita come un elemento di distrazione.

Questo, fondamentalmente, significa che l’audioguida è spesso ciò che marca la differenza tra il pubblico che crede di conoscere già cosa andrà a vedere, che non ha bisogno di nessuna chiave di lettura (o meglio, va a una mostra o perché la vuole criticare o si sente identificato nella stessa visione del curatore. In qualsiasi caso, per questi visitatori spesso le opere parlano da sole) e chi invece va alle mostre e si affida alle parole di un altro (secondo l’altezzoso punto di vista del primo gruppo), dimostrando ignoranza del soggetto. Tutti siamo al museo per farci vedere, ma ad alcuni importa esserci per sembrare il più intelligenti possibile.

L’audioguida a Bozar era gratuita e offerta all’ingresso delle sale, non aveva numeri né tasti, e la sua insidiosità nel dirigere la mia visita era un po’ più difficile da mettere a fuoco: wireless e contactless, bastava avvicinarla (passando quindi magari distrattamente vicino a un’opera marcata con un bollino) per attivarla. Raccontava dettagli sulle opere e sulla vita di Brancusi, come sempre, ma i testi erano piuttosto brevi. Il massimo della discrezione e dell’eleganza, direbbero certuni (..).

Avere una audioguida quando visito un museo, un sito patrimoniale o una mostra è per me un fortissimo condizionamento, e ho un rapporto molto conflittuale con tutte. Da una parte mi sento obbligata a ascoltare tutto ciò che posso sia per rispetto del lavoro altrui sia perché penso che potrebbe esserci uno stimolo di riflessione interessante nelle parole di critici, curatrici, storiche che hanno preparato i testi; d’altro canto mi infastidisce dovermi concentrare per tanto tempo stando immobile, e questo è un mio problema perché se cammino mi distraggo con qualsiasi altra cosa veda – persona, drappo, luce, pianta. Per questo quindi l’audioguida finisce per vincolare la mia libertà di movimento e mi risulta scomoda.

La stessa libertà di movimento (o la sua assenza) insieme al limite posto alla spontaneità del visitatore che si genera a causa della presenza degli originali o di materiali fragili sono il leit motiv delle mie visite a musei da diverso tempo, dato che sono esemplificative del potere esercitato dal museo come ecosistema.

La contrapposizione tra due sistemi, due pubblici, due proposte di didattica artistica e accrescimento della sensibilità empatica non avrebbe potuto essere più nitida nella mia immaginazione perché l’ultimo museo che avevo visitato prima di Bozar era il Museo Tattile Omero ad Ancona, in cui avevo messo la mani dappertutto, mentre qui, di fronte a quelle superfici liscissime a portata di polpastrello, non potevo sfiorare nulla..ma per adesso pausa.

* Bozar è un centro multidisciplinare progettato negli anni 20 del Novecento da Victor Horta e funge ora come aggregatore di eventi culturali di lusso tradizionali (concerti di musica classica e lirica, mostre di arte figurativa) e contemporanea (sponsored corporate events…). Lo dirige un CEO – direttore artistico. Mi ricorda sempre il Martin-Gropius Bau di Berlino, ma non è pubblico o retto da una società in cui il senato locale e lo stato hanno una partecipazione.

Immagine: dalla mostra a Bozar ma in prestito dal Centre Pompidou, Constantin Brancusi come lavapiatti nel 1904 a Parigi, dimostrando una incredibile somiglianza con un mio amico rumeno.

Enea e il covid-19

Giorni strani, strani giorni, questi.

Ho cercato di ricordare quando sia stata l’ultima volta che mi hanno controllato un documento di identità passando via terra tra un paese dell’Unione europea ed un altro. Era il 2009, l’ultima volta che sono passata in treno tra molti paesi dei Balcani.

Nessuno si può muovere e le risorse a disposizione diventano sempre di meno, si torna indietro nelle letture, nel tempo, nei ricordi e nei miti. Ho iniziato l’anno leggendo “Contro l’identità italiana” di Christian Raimo, e seppur sentendolo profondamente vicino, questo è l’anno in cui paradossalmente penso a come potrebbe essere vivere in Italia ora.

In questi giorni di Covid-19, di paure e insicurezze, ricevo l’ennesima catena di Whatsapp. Questa volta riporta parole di Philippe Daverio, che sembra non aver mai detto queste cose e me ne rallegro tanto, anche se dice di condividerle. Chi me lo manda lo trova divertente e intelligente e “giusto”.

“Sto a casa e scrivo…

Aspettando che la grande scopa del Manzoni la smetta, e sono felice di non essere anglicano upper class, ma banale cattolico afflitto da pietas

Ho aspettato un po’ a scrivere, speravo di aver capito male. Invece il Primo Ministro del Regno Unito, intendeva dire proprio ciò che ha detto: “Abituatevi a perdere i vostri cari”. Boris Johnson si è laureato ad Oxford con una tesi in storia antica. È uno studioso del mondo classico, appassionato della storia e della cultura di Roma, su cui ha scritto un saggio. Ha persino proposto la reintroduzione del latino nelle scuole pubbliche inglesi.

Mr. Johnson, mi ascolti bene.
Noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise, il suo vecchio e paralizzato padre, per portarlo in salvo dall’incendio di Troia, che protegge il figlio Ascanio, terrorizzato e che quella Roma, che Lei tanto ama, l’ha fondata. Noi siamo Virgilio che quella storia l’ha regalata al mondo. Noi siamo Gian Lorenzo Bernini che, ventiduenne, quel messaggio l’ha scolpito per l’eternità, nel marmo. Noi siamo nani, forse, ma seduti sulle spalle di quei giganti e di migliaia di altri giganti che la grande bellezza dell’Italia l’hanno messa a disposizione del mondo.
Lei, Mr. Johnson, è semplicemente uno che ci ha studiato. Non capendo e non imparando nulla, tuttavia.Take care”

Lo leggo e rispondo “speravo fosse un economista, l’ennesima conferma che il sistema accademico è una tragedia“. Mi rispondono “non hai capito il senso, a me è piaciuto molto“. Ne nasce una grande discussione senza capo né coda e molte arrabbiature.

Trovo che in un paragrafo di poche righe si condensi una narrazione secondo me molto pericolosa e che ho percepito molto potente e mi sono ricordata di quanti amici mettessero in guardia da in cosa potesse tramutarsi questo momento. Vi ho trovato una retorica pacchiana molto superflua che non va al sodo, pensando ai riferimenti antologici come Manzoni (che oh, mi rilessi quattro anni fa i Promessi Sposi perché intero non l’avevo mai letto) e al tono enfatico molto superfluo, ma che evidentemente senza essere particolarmente affascinante si è resa addirittura virale e si può riassumere in un “Noi siamo diversi, siamo più colti e per questo ci occupiamo dei nostri anziani”. Questo pensiero si impernia su tre punti che non erano quelli su cui chi mi aveva mandato il messaggio si era soffermat*

  • il paradigma secondo cui a una istruzione umanistica debba corrispondere poi nelle persone per forza un carattere caritatevole o non so, ecumenico?
  • una contrapposizione dicotomica e semplicistica tra le radici romane (greche no, meglio di no, troppo complesso e profondo coinvolgere i greci, ti immagini? Elettra, Medea, Arianna…no no, il bistrattato buon Enea fa sempre comodo) e una diversa tradizione germanica?
  • un perpetrato nazionalismo anacronistico che fa della romanità italiana l’epicentro di una dichiarata superiorità morale?

Mi ha messo una grande tristezza vedere come non venisse percepito così ma anzi come qualcosa di giusto da dire nei confronti di un essere sgradevole come Boris Johnson. Ho pensato a come ci fossero mille modi diversi di riflettere su quello stesso argomento, persino via catena di Whatsapp. Ho pensato a come sarebbe stato importante riflettere sul senso di comunità, di trasmissione del ricordo, di cosa significhi assistenza sanitaria universale, a come questa trascenda da molto tempo la romanità. Il messaggio si concentrava su quella invece, ignorando anche altri casi di solidarietà tra generazioni propri della storia contemporanea (o del secolo XX) italiani, come l’alluvione del 1966 e l’esondazione dell’Arno, o altri momenti che la retorica del patriottismo italiano laico recente ha sfruttato, come ricorda Raimo nel suo libro.

E invece demagogicamente si era tornati a Enea, a una scissione potenziale tra chi è romano o meno, tra pericolosi discorsi su chi può dire di rappresentare e essere dentro quella romanità e chi no, tra le radici romane dell’Europa perché no, e chi ha appoggiato la Brexit…..

Mi sono anche ricordata che ho imparato l’inno italiano tardissimo, che mi insegnarono prima le parole di quello francese a circa 8 anni (anche perché nel mio libro di pezzi di violino del metodo Suzuki c’era la Marsigliese SANTOCIELO) e che mi senta sempre un po’ a disagio quando ci sono gli inni nazionali, in qualsiasi circostanza.

p.s: sembra essere che la lettera / messaggio sia stato scritto da Mauro Berruto, commissario tecnico della nazionale di pallavolo maschile. Sono una lamentona.

Foto: un muro spagnolo ai gusti nocciola, fragola e lampone. Spagna 2019

Le Marche, Palazzo Ducale a Urbino e l’invidia della Romagna

Vengo da una regione che nessuno conosce, che mi costringe alla perifrasi “all’altezza della Toscana ma dall’altra parte” oppure “davanti alla Croazia” per spiegare agli stranieri dove si trovi. Gli unici che l’hanno subito riconosciuta quando ho detto il nome sono stati belga o olandesi con membri della propria famiglia che avevano comprato casa nelle sue campagne. Qualcuno conosce Ancona, alcuni conoscono Gioacchino Rossini, qualcuno la Scavolini (anche in quel caso dipende, la maggior parte conosce la fu squadra di basket, altri la cucina più amata dagli Italiani), alcuni Urbino. Nessuno conosce le Marche.

Gli stranieri cui mi riferisco sono in genere trentenni, hanno lauree magistrali nei settori più diversi, nella stragrande maggioranza dei casi vivono in un paese che non è il loro e parlano almeno tre lingue correntemente (la propria, quella del paese in cui vivono e l’inglese). È chiaramente valido il viceversa da parte mia nei loro confronti e non è di certo la mancata centralità della geografia dell’Italia nella cultura generale degli europei il mio tema qua bensì chi si vuole invitare nelle Marche e per cosa.

Le Marche sono piccole, scomode da raggiungere dall’estero perché gli aeroporti con collegamenti low-cost più vicini sono quelli di Bologna e Roma (non penso nemmeno a Perugia) rispettivamente a due o tre ore di treno o auto minimo di distanza, ma sono molto graziose. Sono così graziose e economiche ancora che disgraziatamente la Lonely Planet le ha dichiarate meta fighetta per il 2020, subito dopo l’Uzbekistan. Questa nomination è stata accolta con immensa gioia da tanti marchigiani che hanno dimostrato un campanilismo represso e miope da far spavento: ignorando bellamente un’infinità di movimenti in favore di un turismo sostenibile diffusi in tutta Europa, tutti si sono rallegrati di questa notizia, essendosi visti riconoscere il potenziale turistico della zona e si sono affrettati a farsi selfie con la lonely planet della regione (hashtag ètuttovero, come sempre) e a ripetere il mantra tipico di chi si lamenta che suona qualcosa come “il nostro valore lo riconoscono prima gli stranieri che non i nostri amministratori, ecco!” etc. Tra l’altro mi ha incuriosito notare come tra questi entusiasti ho trovato anche tanti fu membri di Giovani Comunisti e Sinistra Giovanile diventati insensibili con l’età evidentemente all’idea del turismo usa&getta e i suoi problemi socio-economici ma tant’è. Forse l‘invidia della vicina Romagna che ufficialmente si disprezza sempre ma sotto sotto si continua a voler imitare con risultati inverosimili (v. qui) produce anche questi slanci di amore.

Si prevede e auspica quindi un’impennata di visite da parte di turisti stranieri nell’arco dei prossimi mesi di questo nuovo anno bisestile.

E Urbino, quindi, com’è messa, ad esempio?

Come ricordavo qualche settimana fa, quest’anno ci saranno una serie di eventi in concomitanza con il cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio.

A dicembre durante le mie vacanze italiane approfittando del fatto che con il biglietto di accesso alla mostra Raffaello e gli amici di Urbino potevo entrare anche a vedere la Galleria Nazionale del Palazzo Ducale, mi sono fatta un bel giro anche al piano nobile, dove non entravo come ho già scritto da almeno vent’anni.

Il Palazzo Ducale di Urbino, che oltre ad essere uno spazio patrimoniale eccezionale in sé ripeto ospita una pinacoteca nazionale, è meraviglioso, o almeno lo sarebbe io credo, ma come visitatrice mi sono trovata in enorme difficoltà nel dover interpretare io sola spazio, opere e contesto.

I disagi di chi visita il palazzo secondo me sono dovuti a una serie di fattori che sarebbe bello e utile venissero presi in considerazione per delle migliorie alla museografia che trasformerebbero la visita da un passaggio casuale in degli spazi indefiniti in una consapevole scoperta di un bene culturale molto potente simbolicamente

  1. L‘assenza di spiegazioni sulle opere stesse, sulle sale e il Palazzo e sulla selezione di opere esposte tanto nella collezione permanente quanto nella mostra temporanea
  2. L’incoerenza tipografica tra i diversi cartelli della collezione permanente, le saltuarie spiegazioni sulle sale, le rare indicazioni sulle opere, le donazioni della famiglia Volponi
  3. L‘assenza di una segnaletica adeguata sull’intero spazio di Palazzo Ducale che permetta al visitatore di capire dove si trovi in ogni momento della visita e dove si trovi l’uscita, tra le altre cose.

In generale ho trovato incredibilmente scomodo e sgradevole che ai visitatori non venga fornita nessuna mappa delle sale né della mostra né della collezione, non vi siano foglietti né indicazioni e allo stesso tempo purtroppo il personale è molto scarso, al punto che sia io che altri visitatori non riuscivamo neppure a recuperare l’uscita dal piano nobile, date le vaste dimensioni del palazzo e l’assoluta ignoranza della disposizione delle sale da parte nostra (senza conoscerla previamente non dovremmo entrare? dovremmo avere un miglior senso dell’orientamento? ditemi).

Allo stesso tempo è un peccato notare la mancanza di una spiegazione sulla costruzione e storia della collezione (smembrata, recuperata, riassegnata), sulla museografia e sulle opere stesse, sulla loro disposizione attuale all’interno dello spazio, un qualcosa che permetta al visitatore di costruirsi un’idea, una seppur minima conoscenza dell’ambiente che sta scoprendo. Sono presenti alcuni pannelli supplementari ma sono iper irregolari e, se non sbaglio gravemente, introducono (cerco di ricostruirle secondo il percorso che ho seguito e le mie annotazioni)

  • il Palazzetto della Jole, l’etimologia e storia dello spazio, l’araldica presente sulle porte
  • le fasi del restauro dell’Alcova del Duca Federico da Montefeltro
  • se non sbaglio gli affreschi rimossi da una chiesa e stranamente montati riproducendo delle vele nell’ultima stanza del palazzetto della Jole
  • le donazioni della famiglia Volponi
  • alcuni degli stucchi dei camini dell’appartamento dei Melaranci
  • le ipotesi sulla Flagellazione di Piero della Francesca
  • di certo “La Muta”, esposta nella mostra al piano terra al momento della mia visita

Perché accade questo? Che scarsezza di fondi ha il museo? Che sovvenzioni ci sono per infrastrutture (non si tratta nemmeno di finanziare progetti di attività e diffusione, attenti!) per i musei nazionali in Italia? Perché la Galleria Nazionale delle Marche non ha una tipografia e una grafica uniforme, omogenea e illustrativa dei suoi spazi e delle sue collezioni? Perché nel leggere i pochi pannelli è così evidente che si tratta di una serie di interventi puntuali avvenuti uno dopo l’altro in modo incoerente? Si può migliorare? Sia per le visitatrici italiane marchigiane che per i forestieri che non parlano italiano, se davvero sono importanti come sembrano e il turismo oltre all’università è tutto ciò che ha Urbino?

Il discorso è anche qui, come sempre o quasi in fondo, chi si vuole o si desidera come pubblico dei musei, quando, e perché….

p.s: Non ho considerato in queste note la visita da parte di persone con disabilità né la visita alle altre sale del piano terra.

Foto: l’Italia da dopo il delta del Po in giù atterrando a Bologna, settembre 2019

Raffaello e gli amici di Urbino: occasioni sprecate e anacronismi

A Natale ho passato circa dieci giorni in Italia e ho visitato una mostra che mi ha fatto riflettere molto sui tratti antiquati della museografia di certi musei e sulla loro anacronistica attitudine quasi volta a mantenere intatto il proprio carattere inaccessibile, rendendoli luoghi comprensibili solo a uno sparuto gruppo di persone che tramandano il propio sapere solo ai membri della propria cerchia, abbandonando del tutto ogni tentativo di rendere le proprie collezioni intellegibili al più ampio numero possibile di persone e quindi sostanzialmente negando la validità di ogni cosa scritta nel campo degli studi museali degli ultimi trent’anni su chi va alle mostre e per cosa.

Mi vorrei concentrare qui su una mostra che chiude il 19 gennaio per poi guardarla nel suo contesto in una seconda occasione.

In questo momento a Urbino, Patrimonio Unesco per il carattere eccezionale del suo centro storico rinascimentale e città natale di Raffaello Sanzio, presso la Galleria Nazionale delle Marche c’è in corso una mostra titolata Raffaello e gli amici di Urbino.

Premessa settoriale: Raffaello nacque a Urbino ma praticamente quasi non ci lavorò spostandosi giovane a Firenze e poi Roma.

Premessa personale: io a Urbino ho fatto i primi due anni di Università presso la facoltà di Lettere. Ciononostante non entravo a Palazzo Ducale da una gita di quinta elementare, dal 1996/7.

Ero molto curiosa di vedere la mostra e rientrare a Palazzo Ducale, dove ha sede la Galleria, pensando a quanto tempo avessi sprecato vivendoci di fianco senza entrarci mai quasi quindici anni fa.

Avevo tanta voglia.

Il biglietto costa 8€ e comprende la visita alla mostra, esposta in sei piccole sale al piano terra, alla collezione permanente della Galleria Nazionale, esibita nei piani nobile e secondo del palazzo e a una seconda mostra che non ho visitato Raphael Ware: I colori del Rinascimento.

Palazzo Ducale

Palazzo Ducale, Urbino

Non so come descrivere la mia esperienza se non dicendo che sia la mostra che la Galleria intera potevano perfettamente esser state allestite nel 1993 e l’anacronismo della museografia di entrambe mi ha lasciata molto disorientata e un po’ amareggiata.

I principali difetti, o piuttosto, le principali occasioni perdute di fare un allestimento attuale nel 2020, riguardano secondo me:

  1. L’assenza di un itinerario almeno suggerito dentro le sale stesse
  2. L’assenza di pannelli adeguati e di fogli di sala (del tutto assenti)
  3. L’assenza di spiegazioni sul perché nella mostra certe opere erano mostrate lasciando visibile il retro e quale fosse il valore di questo retro (o verso, ciao povery)
  4. Il lessico impiegato nelle uniche spiegazioni di sala e la loro posizione nella mostra. Una in ogni sala, bilingue italiano e inglese, collocate in posizioni imprevedibili, a volte a destra, a volte a sinistra, a volte nella parete opposta alla porta di ingresso, confondendo il visitatore e costringendolo a iniziare la visita senza spiegazioni per poi interrompere il proprio itinerario e scomodare l’altrui sostando nel mezzo di una piccola sala per cercare di leggere i testi che dovrebbero guidarci o darci indicazioni sulle opere esposte.

Le sale dedicate alla mostra temporanea sono piccole e per tanto risultano subito affollate anche se i visitatori non sono così numerosi. Dentro la prima sala è possibile seguire un itinerario in senso orario suggerito dalla posizione del cartello iniziale e dalla presenza di opere installate su un grande pannello centrale che costruiscono un percorso, cosa che si ripete nella seconda, mentre nelle altre tutto diventa meno chiaro. D’altro canto proprio i pannelli centrali della prima e nella seconda sala rendono molto scomodo in sale già così piccole muoversi guardando a destra e a sinistra passando dalla parete ai pannelli. Nella prima sala è esposto poi un disegno (se non ricordo male un disegno, ma non me sono certa e non riesco a trovarlo nel sito della Galleria) il cui retro/verso presenta una specie di tavolozza di colori a olio: la carta fu utilizzata evidentemente in altri momenti con altri fini, come carta su cui fare delle specie di prove di colore, ma nell’unico testo presente in sala non c’è nulla che vi faccia riferimento, perdendo un’opportunità di parlare di tecniche artistiche, di materialità della costruzione dell’opera, di allestimento anche, perché no?… Altrimenti, perché farci vedere il verso?

Nella mostra sono presenti in prevalenza opere di Timoteo Viti e di Girolamo Genga (gli “amici di Urbino”) così come opere di Francesco Francia ed altre, tra cui dei singolari ritratti del Perugino che purtroppo non vengono minimamente contestualizzati né descritti, di modo che il motivo della scelta delle opere e la loro relazione con Raffaello risulta labile e difficile da cogliere, se lo sguardo non è quello molto affinato di una persona che ha molta dimestichezza con il linguaggio visivo del XV e XVI secolo.

Vorrei sottolineare che non mi aspetto né desidero che un museo mi proponga un itinerario pre-configurato quando visito una mostra o una collezione, ma se si sceglie di trascurarli intenzionalmente, l’intero impianto dell’esposizione deve presentarsi differente e lasciato alla interpretazione intuitiva e rizomatica del visitatore. In questo caso la geografia e la cronologia erano sì invece gli assi strutturanti la mostra, ma non erano esplicitati adeguatamente, soltanto accennati a volte e l’allestimento secondo me ha pregiudicato fortemente la comprensione del discorso storico-artistico che sottosta la curatela, e non so se questo fosse intenzionale. Ne ho capite parti solo in un secondo momento leggendo questa intervista con l’ex direttore della Galleria Peter Aufreiter.

A proposito di comprensione lessicale pura e dura, ho trovato questo testo della penultima sala, (l’unico, ripeto, uno in ogni sala) particolarmente emblematico della museografia intera della mostra:

Questa ricostruzione dell’imponente ancona, oggi perduta, che incorniciava la Disputa dei Dottori si basa sulle indicazione contenute nel contratto di allogagione dell’opera sottoscritto da Genga il 12 settembre 1513.”

il pannello dell’allogagione.

E mi chiedo: perché le curatrici hanno scelto di impiegare termini desueti come “Allogagione” indicato nel dizionario Treccani come l’antico lemma per “allogazione”, già di per sé difficile al posto di “commissione”, e “Ancona” al posto di pala d’altare? Se nel caso di allogagione proprio non mi spiego i motivi che possano averle portate a questa scelta, il tecnicismo ancona potrebbe avere la sua giustificazione, dato che una ancona diventa pala d’altare se inserita in una fittizia struttura architettonica, ma appunto, se non si trattava di pala d’altare, perché sprecare l’opportunità di indicare le differenze tra le due e aggiungere conoscenza ai propri testi per diffondere cultura invece che rendersi incomprensibili? Mi chiedo: il lessico scelto è dovuto al fatto che i curatori sono prevalentemente accademici e non sanno parlare con il pubblico di un museo? Sono sicuri di chi vada alle loro mostre? E chi vogliono che vada alle loro mostre? Dovrebbero forse riconoscere di non saper scrivere con un lessico adeguato ad una mostra che viene annunciata per radio, in treno, su banner online in giro per il Paese e porta un titolo che più friendly e gggiovane non si può e far invece lavorare mediatori e divulgatori in questi ruoli? Perché questa incoerenza? Con che finalità? Io non sapevo cosa fosse una Ancona, eppure ho una laurea in Lettere moderne e una in Studi museali (che non è Storia dell’arte né Conservazione dei beni culturali).

Assomiglio al pubblico cui questa mostra si rivolge? Credo di sì, ma forse avrebbero voluto avere anche più visitatori, o forse forse, il mio timore è che nessuno abbia pensato a chi sarebbe stato il pubblico della mostra o, ancora, non ci sia un vero interesse a esporre opere d’arte classica e renderle leggibili. Questo mi amareggia.

La sala del pannello della Allogagione, oltretutto, includeva una enorme Annunciazione di Girolamo Genga (parte del Trittico di Sant’Agostino di Cesena) che possiede una tale forza e potenza dinamica, con una Maria la cui gestualità ma non il volto suggerisce paura e sorpresa e con un Angelo che sta nuotando nell’aria emozionanti, ma nonostante ciò abbandonata a se stessa e credo neanche citata nel pannello di sala…

È per me difficile da credere che una mostra del genere sia stata dovuta organizzare in fretta, ma se così fosse questo la potrebbe ipoteticamente dir lunga su a) esigui finanziamenti richiesti e ricevuti dalla Galleria Nazionale della Marche per organizzarla b) la incredibile miopia della pianificazione della Sovrintendenza e della Galleria nell’organizzare in fretta la mostra c) l’intenzionalità nel volersi rivolgersi a un pubblico esclusivo di specialisti di un momento della storia dell’arte mondiale estremamente specifico, anche riconoscendo un’importanza straordinaria di Raffaello nella storia dell’arte mondiale.

E mi chiedo quindi, se la responsabilità non è stata della fretta, perché si è sprecata di nuovo un’occasione bella creando una mostra difficile da seguire e da intuire che invece sembrava voler invitare e coinvolgere un pubblico anche più amplio del solito?

Foto: i torricini che guardano verso Roma nel gelo di dicembre 2019. Dentro si trova lo studiolo di Federico, che poggia sul Tempietto delle muse e sulla Cappella del Perdono, materializzando l’unione di paganesimo e cristianesimo rinascimentali per dar vita alla vera conoscenza (infinita bibliografia ma su tutti vedi Warburg), tutte cose non spiegate né illustrate né indicate in nessun modo dentro il palazzo, inspiegabilmente, sì invece sulla pagina web della Galleria.

Micro rassegna stampa sulla mostra:

Gulbenkian, Lisbon

Actually connected audiences

Connected audience took place in Berlin last spring, a loong time ago indeed, and only now I come to write something about what gave me the strongest kick for keep on doing research and writing while there. I think the reason is that I needed more elements that would confirm that, but also more knowledgeable, competent, passionate people in the field, and I only found them in quite different circumstances.

The workshop I chose to attend was held by Christiane Birkert, Head of Visitor Experience & Research at the Jewish Museum Berlin (DE), and it was called “Visitor experience mapping”. Ms Birkert was given a huge room for a little group of about 15 people who had to concentrate and carefully listen to her voice, after she had invited us to get closer to her, because she had no mic and did not want to scream. Without any doubt for me these were by far the best 60 minutes of the whole congress. Deciding to use Powerpoint with graphs and data (YES, DATA ALWAYS MATTER) she was kilometers above any other presentation I attended over those days. In the other ones most people showcased obvious, superficial, obsolete methodologies that had seemed to be immensely innovative from a technological point of view one or two years ago (I already wrote about this) but did not add any value to our discussions.

The insights she shared with us, the research activity the Berlin Jewish Museum is doing to understand the non-visitors, the audience research they plan in order to serve better the exhibition department, the fact alone that they have a department dedicated to visitors experience, the knowledge they have been able to accumulate over time especially in regard to the emotions generated within the museum space, mostly due to the potentially tense content of their narration of history but, above all, the humbleness Ms Birkert showed. It reminded me once again how the smartest persons I ever got the chance to know have always been also the humblest.

What would you ask 7 yrs olds about the Noah’s Ark?

These were the answers.

It felt reassuring, warm, encouraging and depressing at once. I could not let go of the feeling and the light anxiety generated by the fact that I am aware that these discourses can only be done within a certain framework of wealthy, inclusive, respectful and resourceful (yes, $ or € is what I mean) societies, and are in the vast majority of Southern Europe absolutely unknown.

I sort of broke up with research, after I had the chance to speak and take part in early July to the Spanish Sociology Congress. Here, within the cultural sociology working group a young man extensively lectured the small audience about the relationship of trap music, reggae and messianism. Many people were enthusiastic about it, especially because the rest of us presented and dealt only with sociology matters without venturing too much into other areas. I remembered vividly the sense of uneasiness some academics would give me in my first University years in the Philology departments, and how little at home I felt in that confused abstraction. Where were the data? Where was the knowledge Ms Birkert shared with us? Was this what can be valued in research? Should I do the same in my PhD? Should I leave it? A whole summer did not fix it any of this yet.

Two weeks ago I did my best to try to reconcile data, museums and work, and I might have ended even more frustrated.

I participated in one Erasmus+ workshop on Youth & Museums in Madrid held by the Spanish Youth Institute, the Ministry of Culture and the National Museums. Twenty museum professionals & researchers from different backgrounds from several European countries joined the workshop, but since half of us came either from Finland or Austria, the gap I felt among those who had the privilege of having time to set the most complex questions of museum work and those who could not was even deeper. I realized later we were involved in the final phase of a broader coordinated by the Spanish national museums about “how to get young visitors to museums”. It was not mentioned anywhere in the application. This meant attend some public presentations of the different museums.

I won’t go deep into the activities directly – we participated olny to a couple, but could not get any idea of their planning since we could not speak with the teams of those museums (Anthropological and Archeological).

I just wanted to positively remember the chat we had with Clara Nchama, from the Communication Department of Museo del Traje. She, as Christiane Birkert did, was capable of showing to an attentive audience what kind of work museums in the South really can do. Honest, knowledgeable, competent, up-to-date with what museums challenges in the XXI century are, completely aware of what is was feasible to achieve with a small staff, and she achieved a lot, proposing to a young audience (the ministry wanted them to address everyone from 15 to 30…) the chance of participating into the exhibition set up. The behind the scenes of museums work, something young people might really be interested in on the short, mid and even long term.

To look up for Ms Nchama’s name on the internet took me about 5 minutes which says too much about the Spanish museum system. Her name does not even appear openly, only the email address in an obsolete webpage within the Ministry of Culture web-environment.

How can a system in which it is required to study for YEARS after completing your M.A. to pass an extremely complicated national exam to be only eligible for potential future job openings in the museum field not even highlight the names of those professional who make them stand out among a mix of not even English speaking professional?

Seriously! I know well that one part of the exam is a language exam – does it make sense that these people can translate a legal document about museums (yes, that is what the content usually is) but they cannot express themselves and present their work in front of a foreign audience (this really happened)? How poor is the knowledge among museum professionals here? It is not only a matter of means a museum has, it is also a matter of being involved in contemporary issues and methodologies, and of course, priorities within museum work.

Who stands out? Who can stand out? Those who can afford not to work for years to take an exam based on law, history and art history? Is it worth it to keep staying here and have 3, 4 jobs trying to work in the field and changing it from within, hoping to work with people like Clara, or is it a huge loss of time? Who can afford to work in museums in South Europe? And what will they ever do anyway?

What audiences can be understood if there is no intention of supporting those who do? How perverse is this?

A long winter ahead.

Picture: Museo Gulbenkian, Lisbon, last week, by me of course.