La leva culturale per la coesione sociale (wait, what?!)

Pesaro, la città in cui sono nata e cresciuta, è stata nominata ormai un anno e mezzo fa Capitale della Cultura italiana 2024. Condivisibili o meno le motivazioni della nomina, è davvero un importante risultato: finanziamenti enormi per progetti di ogni tipo, visibilità (che mi auguro sempre porti maggiore trasparenza, correttezza nelle procedure.. etc), curiosità verso il territorio.
A cosa serve quel milione di euro che va in premio alla città con i progetti più belli?
Recita il sito del MiC – Segretariato generale:
“L’obiettivo generale della Capitale italiana della cultura è quello di sostenere, incoraggiare e valorizzare la capacità progettuale e attuativa delle città italiane nel campo della cultura, affinché venga recepito in maniera sempre più diffusa il valore della leva culturale per la coesione sociale, l’integrazione, la creatività, l’innovazione, la crescita, lo sviluppo economico e il benessere individuale e collettivo.”

Il valore della leva culturale per la coesione sociale, l’integrazione, la creatività, l’innovazione, la crescita, lo sviluppo economico e il benessere individuale e collettivo.

Questi i primi due obiettivi specifici:

  1. ll miglioramento dell’offerta culturale, la crescita dell’inclusione sociale e il superamento del cultural divide;
  2. il rafforzamento della coesione e dell’inclusione sociali, nonché dello sviluppo della partecipazione pubblica

Il rafforzamento della coesione e dell’inclusione sociale sembrano essere così importanti da ricorrere addirittura due volte, nei primi due (non troppo ben scritti) obiettivi specifici: è bello però che sia così. Fa quasi tenerezza che siano scritti così male, cioè a qualcuno è sembrato molto importante e nessuna ha fatto un buon editing sul testo. Cacchio, inclusione sociale. Cultura come strumento e obiettivo cultura del superamento del cultural divide, annullamento delle differenze tra chi è più avvantaggiato e chi è più svantaggiato, cultura della inclusione sociale, ovvero, immagino, cultura della integrazione, della fratellanza e della pace, cioè quelle condizioni che permettono la creazione stessa di cultura come manifestazione artistica, che coincide proprio con il miglioramento dell’offerta culturale che viene citato.
Cultura della coesione, della partecipazione pubblica al dibattito politico, del vivere insieme, cultura dell’armonia e della pace, ripeto, condizioni per il vero sviluppo artistico1

In questo tripudio di buone intenzioni, c’è in mezzo una guerra furibonda che tocca Pesaro. Sebbene vada avanti dal 1948, questa guerra è truce e violenta, e lo è in modo particolare dallo scorso sabato, è la guerra tra Israele e Palestina. A seguito di una serie di eventi recenti e dell’acuirsi di violenze e soprusi da parte di Israele, Hamas ha attaccato quest’ultimo in un modo inatteso e violentissimo il 7 ottobre uccidendo circa 2000 persone – la prima volta dal 48, mentre di civili palestinesi tra il 2008 e il settembre 2023, pre-guerra attuale, sono morti 6407 e 152 560 feriti (dati UN) . Per tutta risposta, il ministro della Difesa di Israele ha definito i Palestinesi tutti animali e ne ha ufficialmente decretato la morte, con particolare riguardo per la Striscia di Gaza cui ha sospeso il somministro di energia già da 4 giorni. Israele ha poi invitato chiunque viva in quel buco terribile di terra a spostarsi da nord a sud prima dell’intervento di terra del suo esercito, pronto al confine. Da una settimana si discute dell’apertura di corridoi umanitari per far scappare i civili prima che Israele fondamentalmente commetta un genonicidio dal Sud della Striscia verso l’Egitto, in particolare attraverso il varco di Rafah. E guarda guarda, Pesaro è formalmente gemellata con Rafah.

Quanto è utopico sperare che Pesaro colga l’occasione per rappresentare qualcosa di più di una cittadina qualsiasi sulla riviera adriatica che ha ricevuto un milione di euro per fare mostre e feste per attirare turisti? Quanto è vano sperare che prenda una posizione, che si distingua ed emerga dalle precedenti per dare una sfumatura etica alla sua nomina a Capitale della Cultura? Che cinicamente sfrutti questo ruolo per portare l’attenzione su cosa sia cultura, su quali condizioni servano per creare “cultura”…Una stanza tutta per sé? Una nazione tutta per sé? un territorio per sé? O si può condividere quel territorio? Serve serenità mentale e non una popolazione affetta da depressione e PTSD?

Ad oggi non è stata pubblicata neanche una riga di riflessione né dall’assessore alla Bellezza (la Cultura…) né dal Sindaco Matteo Ricci. Soltanto un ex sindaco della città, Oriano Giovannelli, ha avuto la volontà di parlarne, riflettendo sul valore simbolico dell’idea di gemellaggio.

E quindi, il titolo di Capitale della Cultura, è solo una facciata di cartapesta o potrebbe essere altro?

A margine vale la pena fare una profonda riflessione: quali sono le ragioni legittime per considerare la cultura un mezzo per raggiungere obiettivi così alti e così difficili da compiere, e in cui tanti altri rami della politica hanno fallito? Può la cultura ovviare a politiche abitative inesistenti e che obbligano persone con redditi più bassi a cercare casa nelle periferie mal servite della città? Può la cultura alzare gli stipendi e le pensioni? Può la cultura occuparsi della infrastruttura viaria di una città? Può la cultura creare asili nido? Può la cultura creare lavori a tempo indeterminato retribuiti? Far accendere mutui? Può la cultura creare spazi aperti e gratuiti in cui passare semplicemente del tempo quando si hanno 15 o 70 anni? Questi sono problemi che richiedono interventi a lungo termine, di pianificazione sociale, politica ed economica. La cultura può facilitarli davvero?

Se davvero si crede a questo e non si usa la cultura come uno strumento qualsiasi per attingere a fondi usati poi solo per interventi a brevissimo termine, perché non si amplia la riflessione sul suo valore?
Se si crede che la cultura abbia un merito e un ruolo nei processi di integrazione sociale perché non si rispetta chi vi svolge una professione? perché si delegittima la professionalità di chi vi lavora non pagandola, ostacolando percorsi di formazione accademica, professionale, amministrativa coerenti tra loro?

Ci si crede o no a questi obiettivi e alle motivazioni che portano alla nomina? Forse, anche se ci si crede, quando si gestisce un progetto come quello delle Capitali della. Cultura si fanno prevalere i timori sull’efficacia della cultura anche senza fondarli sugli studi dei miei sociologi del cuore sulle criticità a certe politiche culturali ottimiste, e senza neanche accompagnare i tumori da valutazioni dell’impatto della cultura nel rafforzamento del tessuto sociale. Forse si ha solo paura di essere impreparati, ma forse varrebbe la pena provare, quando se ne ha la possibilità direttamente tra le mani come nel caso di Rafah e Pesaro, a dare un significato più grande a titoli altrimenti vuoti e intervenire.

  1. o ci vogliamo raccontare che grazie a Dio che c’è stata la prima guerra mondiale altrimenti ciao Espressionismo tedesco?! davvero? ↩︎

La radio, il disagio, l’arte.

Da quattro mesi ho un lavoro a tempo pieno che mi dà uno stipendio decente, mi occupa il cervello con cose lontane dalla gestione culturale, mi gratifica il giusto ma mi costringe a fare i conti con la Provincia. La provincia in Italia corrisponde a quell’enorme spazio che non è Roma Torino Milano o Napoli, ovvero che non ha servizi di trasporto pubblici adeguati (aka che non percorrano itinerari lunghissimi o che non raggiungano le destinazioni desiderate) e costringe chiunque vi viva a servirsi di un mezzo di spostamento privato per raggiungerla. Che sia un veicolo a motore, un monopattino, una bicicletta, un risciò poco importa.

Io per andare a lavorare nella provincia Emiliana devo percorrere in qualche modo 37 kilometri tra campi coltivati. Questo oltre a farmi familiarizzare con trattori, mietitrebbie, la vista delle Alpi nelle giornate di cielo aperto particolarmente terso, mi richiede di essere lucida immediatamente appena esco di casa, e mi fa ascoltare tanta radio.

La mattina cerco di ascoltare Radio tre, prima pagina e il filo diretto, se arrivo lunga, becco gr3 e poi pagina3, cosa che purtroppo mi è successa negli ultimi due giorni.s

Sembrerebbe che una persona senza fissa dimora abbia in qualche modo provocato l’incendio della Venere degli Stracci di Pistoletto. Le teorie su chi come e perché si son sprecate nelle prime 24 ore dal fatto. Attivisti ecologisti, vandali minorenni, situazionisti fuori tempo massimo. No, invece è andata in un altro modo: come sentivo dire stamattina “potrebbe essere il disagio, non la furia iconoclasta, a caratterizzare la personalità del clochard” ..il disagio, come se servisse spiegare che se vivi per strada stai vivendo una situazione di marginalità, sofferenza, umiliazione e quindi automaticamente di disagio.

Sempre su radio tre a prima pagina ho sentito diversi interventi sul fatto che manchino i presidi delle forze dell’ordine a tutelare l’arte contemporanea dagli atti vandalici.. veramente questa vicenda può arrivare a toccare un’infinità di temi, come tutto quello che coinvolge lo spazio pubblico del resto..
Comunque per contrasto subito dopo al GR3 la giornalista (credo) mi pare abbia definito le sculture di Matisse in esposizione al MAN a Nuoro così belle da volerle toccare, oppure erano parole della direttrice..

Da lì ho pensato che a Pesaro hanno infilzato nel 1998 la Sfera Grande di Arnaldo Pomodoro su un piedistallo nel mezzo di una fontana a piazza Europa. Chissà , magari lo hanno fatto anche come deterrente per chi avrebbe continuato a cercare di toccarla, a sdraiarcisi e a baciarcisi sotto come aveva fatto chiunque con la versione in poliestere che era nei giardini sin dagli anni settanta.

Questo però non ha evitato che io e le mie compagne di classe ci facessimo il bagno dentro l’ultimo giorno di scuola della quarta superiore, nel 2004.

Dovevano metterci forse la polizia a sorvegliarla? Surveillance built site specific artwork?

P.s.: di recente Tea Fonzi ha lanciato un sondaggio sul suo profilo instagram chiedendo perché Sgarbi può toccare le opere esposte nei musei e noi no. Insomma le parole dette per radio erano quasi istigazione a delinquere 🙂

Hackathon al CCCC: la pratica e i pensieri

L’hackaton del CCCC procede, al di sopra sopra delle nostre distanze.

Preso il centro come casa, lo dividiamo in stanze e costruiamo un percorso bizzarro per il possibile pubblico del centro, a seconda della posizione o del contenuto delle sale. Il mio gruppo decide di stare all’ingresso, mediare la transizione dalla strada al museo, da uno spazio pubblico a un altro spazio pubblico che però si regge su regole diverse, incomprensibili e intransigenti spesso. E di farlo in vestaglia e pigiama, sulla porta d’ingresso del museo. Con un thermos di tè e delle tazze in mano ad accogliere i visitatori.

In 4 ore ci spartiamo i ruoli, studiamo alla svelta lo spazio (la soglia, la biglietteria, i corridoi e i chiostri di questo ex-convento), raccogliamo le informazioni essenziali che ci servono per accompagnare il pubblico, scegliamo i ritmi del discorso e dell’introduzione, facciamo delle prove, e finalmente lo presentiamo a Christian e Beatriz. L’idea li fa ridere ma non ce la cancellano, ci suggeriscono dei cambi, il gruppo tuttavia si sente criticato e si innesca una nuova dinamica vagamente conflittuale, dovuta al fatto che per questa attività tutt* eccetto me sarebbero stat* valutat* ai fini del Master che frequentavano.

Una volta in atto però, il nostro gruppo fa in realtà un ottimo lavoro, perché andiamo d’accordo e ci dividiamo i ruoli con serenità senza troppi egocentrismi, coinvolgiamo visitatrici e visitatori sin dal portale d’ingresso, dove abbiamo messo un tavolino per il thermos e siamo in tre, in vestaglia e attacchiamo praticamente bottone con chiunque.

La cosa è in realtà abbastanza facile, l’ingresso è gratuito, siamo in centro storico, è un fine settimana pre-vacanze, siamo in pigiama e facciamo ridere, siamo simpatiche e totalmente calate nel nostro ruolo (cosa fondamentale) e invitiamo persone che passeggiano a entrare nel museo. Cerchiamo di raccogliere gruppi di circa 10 persone e le facciamo passare per i due chiostri, di cui tratteggiamo la storia passata e recente per poi condurli alle sale espositive, dove li lasciamo nelle mani di altre persone a visitare le due temporanee del CCCC. La finzione un po’ magica un po’ fiabesca della casa (cui il pubblico si lascia per fortuna andare) viene smarrita in questi passaggi, e in particolare viene del tutto fatta cadere da un gruppo che interrompe il discorso. L’hackathon non consente di testare più volte e nella sua totalità la visita e di evidenziare le cose che vanno limate, che consisterebbe nel valore profondo della mediazione.

E quindi: l’hackathon è solo una metodologia, un modo che funziona se le conoscenze delle persone coinvolte si completano l’un l’altra, perché in 72 ore quello che non so io lo metti tu, che sia la vestaglia, la conoscenza della storia di un luogo, la capacità di recitare o di studiarti un’opera. Se questa complicità manca, o se tutte le persone coinvolte sono impreparate, purtroppo il senso stesso di una cosa fatta in fretta per spremere e raggiungere nel più breve tempo possibile un obiettivo non c’è, resta solo una esperienza abbozzata e un po’ pericolosa, dato che sposta la responsabilità di quello che non si fa come istituzione su delle persone che non hanno ancora la capacità di non allontanare il pubblico dal proprio spazio.

Nel nostro caso e nella mia esperienza resta la sottile e importante capacità di Christian e Beatriz di guidare un gruppo eterogeneo lungo un percorso difficile e da fare molto in fretta…

Foto: un altro angolo del primo chiostro del CCCC

La mediazione accelerata al CCCC: le sensazioni

La modalità in cui si fanno le cose, qualsiasi cosa, ne definisce i contenuti, li modella, li esalta, li costringe, li limita o li favorisce. Niente di nuovo.

Perciò:

La trasposizione di una dinamica forzata e accelerata quale quella dell’hackathon funziona anche in un contesto in cui tutto è tendenzialmente lento come quello museale/espositivo? Meditativo, di lenta osservazione, di studio e pianificazione progettuale. Cosa comporta a chi di solito impiega settimane a definire i processi, a scegliere le parole da rivolgere a chi ha davanti, a chi studia ogni aspetto di ogni gesto, cosa cambia, se si fa tutto in un battibaleno? In altre parole: ha senso l’hackathon come modalità di creazione per accelerare i tempi di una pratica di mediazione artistica? O meglio, questa modalità estremamente dinamica, che in 72 ore permetterebbe di creare degli interventi rapidi di mediazione culturale, cosa può generare? Come mi ci sono sentita io in mezzo?

Nell’inverno 2019/2020, pre pandemia, pre-chiusura e morte dell’anima di tutta la popolazione valenciana e morte fisica di gran parte, tra tante altre cose ho partecipato a una cosa un po’ particolare aperta al pubblico e organizzata dal CCCC centro del carme cultura contemporanea (centro espositivo regionale di arte contemporanea). Un Hackathon di mediazione artistica destinato agli iscritti e alle iscritte al Master di mediazione artistica Permea e a qualunque esterna interessata: soltanto io.

Coordinato da Christian Fernández Mirón e Beatriz Martínez (La Liminal) l’hackaton era pensato per avere a disposizione due giorni di preparazione e attuare la mediazione stessa il terzo giorno.

Per ragioni lavorative ho perso la prima mezza giornata in cui si è definito il concetto e si sono formati i gruppi, parte abbastanza importante dell’hackathon. Al mio arrivo mi trovo quattro gruppi già formati e un concetto da cui si vuole partire: il centro espositivo come Casa e mi unisco al gruppo più interessato all’idea dello spazio espositivo.

Ricordo distintintamente la sensazione di allegria che mi causa stare in uno spazio enorme e freddo ma intimo, seduti per terra, in piccoli gruppi, nello spazio interdetto ai visitatori, quello che nei musei così come nei teatri è immenso e le cui dimensioni si sottovalutano (mi viene in mente che solo negli archivi o le biblioteche è quasi ovvio che i depositi debbano essere più grandi dello spazio cui si ha accesso ma in genere non ci si pensa).

La solitudine del processo di studio e redazione della tesi dottorale mi aveva poi resa completamente dimentica di cosa volesse dire passare del tempo con estranei con cui potevo condividere degli interessi in uno spazio non accademico, non formale, non di convegno, o presentazioni. Incredibile, emozionante.

Eppure, la distanza c’era, eccome. Anagrafica in parte, ma anche di percorsi, e la forma, ovvero un grosso brainstorming collettivo e orizzontale, lo fa emergere e ne forza il risultato.

Ad esempio:

Una partecipante del mio gruppo riflette tra noi cinque sulla possibilità di coinvolgere gli assistenti di sala e gli addetti alla sicurezza e anche i lavoratori della biglietteria, tirando fuori il fatto che essendo quelli che più di tutti parlano con i visitatori e più a lungo stanno a contatto con le opere vanno coinvolti e che è assurdo e arcaico che non sia così, genera rabbia etc. Uno sfogo, uno sfogo enorme.. ma in un contesto del genere lo ricordo fuori luogo: non siamo al Prado ad una conferenza accademica di soli uomini barbuti che parlano delle cromie di Él Greco, siamo sedut* per terra confrontandoci su modalità alternative di mediazione con due persone straordinarie a farlo.. E infatti Christian le chiede, “ma loro, lo sai se vorrebbero?..” E si apre una voragine/discussione…

Alcun* sono d’accordo, altr* dicono che è vero, sarebbe davvero nuovo farlo, e mi sento di intervenire, di difendere una infinità di pratiche diverse che già esistono, parlo di esperienze e studi che si occupano anche di questo (uno ad esempio), cito istituzioni enormi e privilegiate come la Tate che propongono esperienze di mediazione artistica lontanissime dalla visita accademica top>down ma vedo confusione, perché intorno a me ci sono storic* dell’arte o artist* e questo mi disorienta. Mi trovo a andare indietro, molto, a parlare di nuova museologia, di Nina Simon, del cambio radicale e progressivo avvenuto in area anglosassone tra anni 80 e 90, dell’imposizione del discorso museale, etc etc. mi rendo conto che sto parlando di cose che ho in parte letto una vita fa, alcune ormai sorpassate anche, ma che queste persone non le conoscono, che arrivano a punti simili a quelli della mia ricerca da percorsi completamente differenti. Che per me questo tema e la lettura di tutto ciò che lo riguarda è amore. La distanza tra di noi mi ricorda la delusione provata quando mi immatricolai alla magistrale a Madrid pensando di trovare gente interessata ai musei e trovai quasi solo noia. Christian però annuisce, cosa che mi rassicura ma a quel punto ho già smesso di parlare, abbastanza spaventata dalla dinamica gruppo, tutti studenti e studentesse dello stesso gruppo, meno me.

Che strano momento ripensandoci, tra le altre cose presagio strano della pandemia e del silenzio forzato, universale e inevitabile di qualche mese più tardi.

L’hackaton ad ogni modo procede….

Foto: il cortile del CCCC, un momento di confronto durante l’hackathon. (Sì, spesso a Valencia a dicembre ci sono 15 gradi e splende il sole).

Bombas Gens: la distanza, l’assenza, la dolcezza.

Marzo 2020: In questo momento un gruppo di circa venti persone sta per iniziare un progetto di scambio e partecipazione. Nato come un laboratorio aperto, un progetto di mediazione intergenerazionale sul patrimonio urbano, sul tessuto sociale e la memoria dello spazio. Un progetto serio nelle intenzioni, che ha lo scopo di intessere relazioni tra abitanti del quartiere in cui si trova un centro di arte e interessati e interessate alla storia della città per costruire una esperienza collettiva di esplorazione della memoria urbana. Ma allo stesso tempo un progetto aperto nella forma, senza un obiettivo tangibile a priori (una mostra? un libro? dei percorsi urbani?), libero, anzi pensato proprio come fucina di idee che avrebbe potuto dare origine alle cose più diverse, il cui formato finale sarebbe stato deciso nell’arco di tre mesi dai gruppi di lavoro.

E poi BUM! Bloccato tutto, tutte ferme, tutti a casa.

La quarantena imposta a livello nazionale appena una settimana dopo l’inizio. Lo spegnimento progressivo di qualsiasi entusiasmo un team avrebbe potuto avere e a sua volta suscitare in un gruppo.

Eppure, grazie a chi ci ha lavorato, non è successo niente di tutto questo.

Un anno è gia trascorso, un anno e qualche settimana – che bella e strana storia, che credo che valga la pena raccontare.

Bombas Gens è un centro d’arte contemporanea che si trova a Valencia; aperto nel 2017, ha una propia collezione e ospita regolari mostre temporanee. Il contesto architettonico del museo è certamente privilegiato: una fabbrica dismessa di Bombas, cioè pompe e valvole idrauliche, tipica archittettura industriale della regione, con un ampio cortile all’ingresso, diverse sale molto spaziose e un secondo cortile adattato a giardino. Come se non bastasse, l’edificio accoglie nei suoi sotterraneinche un antico bunker utilizzato durante la guerra civile e il ben più recente ristorante stellato di Ricard Camarena.

Lo spazio offre una molteplicità di spazi orientabili verso gli usi più diversi che il team di curatori e mediatori ha sfruttato in modo eccellente dall’inizio. Mi riferisco alla incorporazione di opere di land art nel giardino o all’avvio di cicli di conferenze nelle spaziosissime sale o alle mostre temporanee in sé per sé. Nessuna cosa è fuori dal normale, no, certo, ma qui sono tutte insieme e con una grande coerenza, cosa che ha trasmesso da subito la chiara identità del centro, la sua direzione istituzionale. Il team di mediazione era composto da tre persone, e sin dall’inizio sviluppava progetti di natura osmotica tra lo spazio e la cittadinanza, specialmente se del quartiere stesso.

Bombas gens si trova nelle immediate vicinanze del centro storico, proprio sull’altra sponda dell’antico letto del fiume Turia, deviato, prosciugato e quindi trasformato in un parco dopo l’ultima esondazione del 1957. Paradossalmente per le dimensioni della città, questa zona, Marxalenes, è considerata quasi immediata periferia: separata dal centro storico dal parco – fiume, inglobata e fagocitata dalla mostruosa espansione urbana e speculazione edilizia valenciana dagli anni 60 in avanti, ha affitti bassi, diverse zone commerciali e ricreative (multisala e Corte Inglés) adiacenti, la Escuela Oficial de Idiomas tutti intorno ma è costituita prevalentamente da diversi casermoni senza personalità cui si mescolano superstiti case a schiera che constringono strade e piste ciclabili a brusche giravolte non essendo ortogonali e aumentano mano a mano che ci si allontana dal centro, quando infine si arriva Benicalap, ultimo quartiere verso nord, municipio a sé stante fino a fine Ottocento.

Come diventare rilevanti in questo quartiere come centro d’arte?

Con tanta comunicazione e apertura e contatto e coinvolgimento da parte del team di mediazione e didatttica, i cui progetti più interessanti secondo me sono quelli di En Marxa. Il nome del progetto, un contenitore di idee e progetti di mediazione, didattica e curatela molto aperto, è un gioco di parole tra il nome valenciano del quartiere e la duplicità della sua pronuncia in castigliano e valenciano. Letto a voce alta, “En Marxa” può significare sia “in movimento” che “a Marxalenes”, e la dolcezza dell’intenzione dietro questa soluzione è chiara in un secondo.

En Marxa si è sin dall’inizio aperto con un bando, e io ho partecipato all’edizione 2020, e sono più che orgogliosa del lavoro che abbiamo fatto tutt* insieme.

En Marxa 2020 è stato un percorso straordinario di narrazione empatica di ricordi, personali e collettivi. Un gruppo eterogeneo e vivace, vicine e vicini del quartiere oltre i 70, studenti universitari di storia, geografia, antropologia, appassionati di arte contemporanea e assidui frequentatori del centro stesso. Poteva non venirne fuori nulla, ed era tutto molto in bilico, visto che dopo la prima presentazione avremmo dovuto avere degli incontri con specialisti esterni e costituire poi dei micro gruppi di lavoro e definire meglio la forma concreta che En Marxa avrebbe preso. Ma non ha potuto andare avanti così.

Cancellata la possibilità di lavorare in gruppi e di persona dopo il primo e unico incontro, Eva Bravo è riuscita a mantenere in vita un progetto di mediazione artistica di una delicatezza straordinaria.

Articolandosi su tre assi principali (lo spazio, la memoria e il patrimonio), trasmesso attraverso canali differenti (gli incontri prima, poi Whatsapp, poi Email) e usando supporti diversi (fotografie, scritti, registrazioni trasformati poi in Fanzines) è venuto fuori En Marxa 2020. Il nostro gruppo non ha mai interrotto il contatto durante i due mesi e mezzo che tra inizio marzo e metà maggio 2020 hanno costretto chiunque a chiudersi in casa, con un elicottero che ci girava sopra la testa e auto della polizia che gridavano “restate in casa”, allontanandoci di casa soltanto per andare fare la spesa girando per una città vuota e silenziosa.

In questo contesto alienante En Marxa ha costituito per tutt* un appuntamento settimanale di scambio, uno sbirciare nella vita di sconosciut* che narravano la propria storia personale dentro la città o fuori, che regalavano gratuitamente a chiunque fosse coinvolto ricordi intimi legati allo sviluppo urbano della città o della propria persona o comunità.

Per me Lucrezia ha significato tirare le fila di una serie di elementi non ancora del tutto sedimentatisi sin dal mio trasferimento nel 2017. È stata l’occasione grazie a cui ho potuto mettere a fuoco una linea che attraversava i miei ricordi recenti, che ha diretto quegli ultimi tre anni trascorsi a studiare, una linea che si collegava a cose molto più antiche, di più intima storia familiare, e mi ha permesso di riflettere e chiarire il mio modo di esplorare lo spazio, di memorizzarlo e appropriarmene, modo che continua a soffermarsi e districarsi tra i palinsesti urbani, collegando fili di storie personali all’entorno, e scriverne. Di mio qui ci sono delle pagine a commento di fotografie, due audio che commentano altrettante immagine e la conclusione, che ho letto imbarazzatissima e a sorpresa il giorno della presentazione finale del progetto, con mascherina, nel luglio 2020.

Una cosa semplicissima in sé che le mediatrici di Bombas Gens, ed in particolare Eva, non hanno abbandonato o trascurato in quelle settimane, bensì trasformato rendendolo ancora più unico di quello che poteva diventare in una circostanza più semplice, per non dire banale. Forse che sia stato possibile perché avevano un contratto decente con il centro? Ha questo poi preso una direzione diversa sotto una nuova direzione e il team intero non esiste più? E i progetti, a prescindere dalla pandemia, sono per questo sospesi? Forse è il mio dispiacere per quanto successo dopo che me ne fa scrivere, anche se non ne conosco tutti i dettagli. Perché penso alla relazione che avevano creato, all’unico senso possibile che vedo nell’occuparsi di Patrimonio, creare relazioni e comunità usandolo come mezzo.

Foto: Valencia, Plaza de la Almoina, maggio 2018, in una delle tante inquadrature in cui dà prova di essere una città bidimensionale.

p.s.: raccontare di patrimonio, di musei, di relazione con lo spazio. Di nuovo. Vediamo se ci riesco.