La mediazione accelerata al CCCC: le sensazioni

La modalità in cui si fanno le cose, qualsiasi cosa, ne definisce i contenuti, li modella, li esalta, li costringe, li limita o li favorisce. Niente di nuovo.

Perciò:

La trasposizione di una dinamica forzata e accelerata quale quella dell’hackathon funziona anche in un contesto in cui tutto è tendenzialmente lento come quello museale/espositivo? Meditativo, di lenta osservazione, di studio e pianificazione progettuale. Cosa comporta a chi di solito impiega settimane a definire i processi, a scegliere le parole da rivolgere a chi ha davanti, a chi studia ogni aspetto di ogni gesto, cosa cambia, se si fa tutto in un battibaleno? In altre parole: ha senso l’hackathon come modalità di creazione per accelerare i tempi di una pratica di mediazione artistica? O meglio, questa modalità estremamente dinamica, che in 72 ore permetterebbe di creare degli interventi rapidi di mediazione culturale, cosa può generare? Come mi ci sono sentita io in mezzo?

Nell’inverno 2019/2020, pre pandemia, pre-chiusura e morte dell’anima di tutta la popolazione valenciana e morte fisica di gran parte, tra tante altre cose ho partecipato a una cosa un po’ particolare aperta al pubblico e organizzata dal CCCC centro del carme cultura contemporanea (centro espositivo regionale di arte contemporanea). Un Hackathon di mediazione artistica destinato agli iscritti e alle iscritte al Master di mediazione artistica Permea e a qualunque esterna interessata: soltanto io.

Coordinato da Christian Fernández Mirón e Beatriz Martínez (La Liminal) l’hackaton era pensato per avere a disposizione due giorni di preparazione e attuare la mediazione stessa il terzo giorno.

Per ragioni lavorative ho perso la prima mezza giornata in cui si è definito il concetto e si sono formati i gruppi, parte abbastanza importante dell’hackathon. Al mio arrivo mi trovo quattro gruppi già formati e un concetto da cui si vuole partire: il centro espositivo come Casa e mi unisco al gruppo più interessato all’idea dello spazio espositivo.

Ricordo distintintamente la sensazione di allegria che mi causa stare in uno spazio enorme e freddo ma intimo, seduti per terra, in piccoli gruppi, nello spazio interdetto ai visitatori, quello che nei musei così come nei teatri è immenso e le cui dimensioni si sottovalutano (mi viene in mente che solo negli archivi o le biblioteche è quasi ovvio che i depositi debbano essere più grandi dello spazio cui si ha accesso ma in genere non ci si pensa).

La solitudine del processo di studio e redazione della tesi dottorale mi aveva poi resa completamente dimentica di cosa volesse dire passare del tempo con estranei con cui potevo condividere degli interessi in uno spazio non accademico, non formale, non di convegno, o presentazioni. Incredibile, emozionante.

Eppure, la distanza c’era, eccome. Anagrafica in parte, ma anche di percorsi, e la forma, ovvero un grosso brainstorming collettivo e orizzontale, lo fa emergere e ne forza il risultato.

Ad esempio:

Una partecipante del mio gruppo riflette tra noi cinque sulla possibilità di coinvolgere gli assistenti di sala e gli addetti alla sicurezza e anche i lavoratori della biglietteria, tirando fuori il fatto che essendo quelli che più di tutti parlano con i visitatori e più a lungo stanno a contatto con le opere vanno coinvolti e che è assurdo e arcaico che non sia così, genera rabbia etc. Uno sfogo, uno sfogo enorme.. ma in un contesto del genere lo ricordo fuori luogo: non siamo al Prado ad una conferenza accademica di soli uomini barbuti che parlano delle cromie di Él Greco, siamo sedut* per terra confrontandoci su modalità alternative di mediazione con due persone straordinarie a farlo.. E infatti Christian le chiede, “ma loro, lo sai se vorrebbero?..” E si apre una voragine/discussione…

Alcun* sono d’accordo, altr* dicono che è vero, sarebbe davvero nuovo farlo, e mi sento di intervenire, di difendere una infinità di pratiche diverse che già esistono, parlo di esperienze e studi che si occupano anche di questo (uno ad esempio), cito istituzioni enormi e privilegiate come la Tate che propongono esperienze di mediazione artistica lontanissime dalla visita accademica top>down ma vedo confusione, perché intorno a me ci sono storic* dell’arte o artist* e questo mi disorienta. Mi trovo a andare indietro, molto, a parlare di nuova museologia, di Nina Simon, del cambio radicale e progressivo avvenuto in area anglosassone tra anni 80 e 90, dell’imposizione del discorso museale, etc etc. mi rendo conto che sto parlando di cose che ho in parte letto una vita fa, alcune ormai sorpassate anche, ma che queste persone non le conoscono, che arrivano a punti simili a quelli della mia ricerca da percorsi completamente differenti. Che per me questo tema e la lettura di tutto ciò che lo riguarda è amore. La distanza tra di noi mi ricorda la delusione provata quando mi immatricolai alla magistrale a Madrid pensando di trovare gente interessata ai musei e trovai quasi solo noia. Christian però annuisce, cosa che mi rassicura ma a quel punto ho già smesso di parlare, abbastanza spaventata dalla dinamica gruppo, tutti studenti e studentesse dello stesso gruppo, meno me.

Che strano momento ripensandoci, tra le altre cose presagio strano della pandemia e del silenzio forzato, universale e inevitabile di qualche mese più tardi.

L’hackaton ad ogni modo procede….

Foto: il cortile del CCCC, un momento di confronto durante l’hackathon. (Sì, spesso a Valencia a dicembre ci sono 15 gradi e splende il sole).

Dall’orecchio alle mani

Conclusasi il giorno del mio compleanno, la mostra su Constantin Brancusi presso Bozar, a Bruxelles, sono riuscita a visitarla per un pelo il primo febbraio*, da sola.

La mostra era cara e facile, strutturata su linee cronologiche e tematiche, e scivolava via svelta, dietro alla voce dell’audioguida: gli spazi del Bozar sono ampli e la disposizione permetteva di muoversi con semplicità, ma soprattutto io avevo tutto il tempo del mondo per fermarmici a riflettere su un paio di cose rispetto a come visito le mostre.

L’audioguida è un tema a sé negli studi di educazione museale e nella prassi dei musei (qui una cosa del Met sulle proprie) e io cerco sempre di ascoltarle.

A livello astratto e di analisi museologica l’audioguida condiziona, orienta e costringe lo sguardo, esplicita il discorso che la museografia non ha definito del tutto, costruendo la gerarchia visuale e prossemica che seguirà il pubblico, e può facilmente essere usata per indirizzare i flussi dei visitatori. Dal punto di vista pratico e estetico l’audioguida è spesso brutta, grande, senza istruzioni e con molti tasti inutili; quando è attiva crea un rumore di sottofondo che contrasta con il silenzio degli spazi museali, ostacola la visita di chi si muove libero, crea file o raggruppamenti di visitatori attorno alle opere che hanno il numerino e, essendo molto simile a un telefono, è facile che sia percepita come un elemento di distrazione.

Questo, fondamentalmente, significa che l’audioguida è spesso ciò che marca la differenza tra il pubblico che crede di conoscere già cosa andrà a vedere, che non ha bisogno di nessuna chiave di lettura (o meglio, va a una mostra o perché la vuole criticare o si sente identificato nella stessa visione del curatore. In qualsiasi caso, per questi visitatori spesso le opere parlano da sole) e chi invece va alle mostre e si affida alle parole di un altro (secondo l’altezzoso punto di vista del primo gruppo), dimostrando ignoranza del soggetto. Tutti siamo al museo per farci vedere, ma ad alcuni importa esserci per sembrare il più intelligenti possibile.

L’audioguida a Bozar era gratuita e offerta all’ingresso delle sale, non aveva numeri né tasti, e la sua insidiosità nel dirigere la mia visita era un po’ più difficile da mettere a fuoco: wireless e contactless, bastava avvicinarla (passando quindi magari distrattamente vicino a un’opera marcata con un bollino) per attivarla. Raccontava dettagli sulle opere e sulla vita di Brancusi, come sempre, ma i testi erano piuttosto brevi. Il massimo della discrezione e dell’eleganza, direbbero certuni (..).

Avere una audioguida quando visito un museo, un sito patrimoniale o una mostra è per me un fortissimo condizionamento, e ho un rapporto molto conflittuale con tutte. Da una parte mi sento obbligata a ascoltare tutto ciò che posso sia per rispetto del lavoro altrui sia perché penso che potrebbe esserci uno stimolo di riflessione interessante nelle parole di critici, curatori, storici che hanno preparato i testi; d’altro canto mi infastidisce dovermi concentrare per tanto tempo stando immobile, e questo è un mio problema perché se cammino mi distraggo con qualsiasi altra cosa veda – persona, drappo, luce, pianta. Per questo quindi l’audioguida finisce per vincolare la mia libertà di movimento e mi risulta scomoda.

La stessa libertà di movimento (o la sua assenza) insieme al limite posto alla spontaneità del visitatore che si genera a causa della presenza degli originali o di materiali fragili sono il leit motiv delle mie visite a musei da diverso tempo, dato che sono esemplificative del potere esercitato dal museo come ecosistema.

La contrapposizione tra due sistemi, due pubblici, due proposte di didattica artistica e accrescimento della sensibilità empatica non avrebbe potuto essere più nitida nella mia immaginazione perché l’ultimo museo che avevo visitato prima di Bozar era il Museo Tattile Omero ad Ancona, in cui avevo messo la mani dappertutto, mentre qui, di fronte a quelle superfici liscissime a portata di polpastrello, non potevo sfiorare nulla..ma per adesso pausa.

* Bozar è un centro multidisciplinare progettato negli anni 20 del Novecento da Victor Horta e funge ora come aggregatore di eventi culturali di lusso tradizionali (concerti di musica classica e lirica, mostre di arte figurativa) e contemporanea (sponsored corporate events…). Lo dirige un CEO – direttore artistico. Mi ricorda sempre il Martin-Gropius Bau di Berlino, ma non è pubblico o retto da una società in cui il senato locale e lo stato hanno una partecipazione.

Immagine: dalla mostra a Bozar ma in prestito dal Centre Pompidou, Constantin Brancusi come lavapiatti nel 1904 a Parigi, dimostrando una incredibile somiglianza con un mio amico rumeno.

Raffaello e gli amici di Urbino: occasioni sprecate e anacronismi

A Natale ho passato circa dieci giorni in Italia e ho visitato una mostra che mi ha fatto riflettere molto sui tratti antiquati della museografia di certi musei e sulla loro anacronistica attitudine quasi volta a mantenere intatto il proprio carattere inaccessibile, rendendoli luoghi comprensibili solo a uno sparuto gruppo di persone che tramandano il propio sapere solo ai membri della propria cerchia, abbandonando del tutto ogni tentativo di rendere le proprie collezioni intellegibili al più ampio numero possibile di persone e quindi sostanzialmente negando la validità di ogni cosa scritta nel campo degli studi museali degli ultimi trent’anni su chi va alle mostre e per cosa.

Mi vorrei concentrare qui su una mostra che chiude il 19 gennaio per poi guardarla nel suo contesto in una seconda occasione.

In questo momento a Urbino, Patrimonio Unesco per il carattere eccezionale del suo centro storico rinascimentale e città natale di Raffaello Sanzio, presso la Galleria Nazionale delle Marche c’è in corso una mostra titolata Raffaello e gli amici di Urbino.

Premessa settoriale: Raffaello nacque a Urbino ma praticamente quasi non ci lavorò spostandosi giovane a Firenze e poi Roma.

Premessa personale: io a Urbino ho fatto i primi due anni di Università presso la facoltà di Lettere. Ciononostante non entravo a Palazzo Ducale da una gita di quinta elementare, dal 1996/7.

Ero molto curiosa di vedere la mostra e rientrare a Palazzo Ducale, dove ha sede la Galleria, pensando a quanto tempo avessi sprecato vivendoci di fianco senza entrarci mai quasi quindici anni fa.

Avevo tanta voglia.

Il biglietto costa 8€ e comprende la visita alla mostra, esposta in sei piccole sale al piano terra, alla collezione permanente della Galleria Nazionale, esibita nei piani nobile e secondo del palazzo e a una seconda mostra che non ho visitato Raphael Ware: I colori del Rinascimento.

Palazzo Ducale

Palazzo Ducale, Urbino

Non so come descrivere la mia esperienza se non dicendo che sia la mostra che la Galleria intera potevano perfettamente esser state allestite nel 1993 e l’anacronismo della museografia di entrambe mi ha lasciata molto disorientata e un po’ amareggiata.

I principali difetti, o piuttosto, le principali occasioni perdute di fare un allestimento attuale nel 2020, riguardano secondo me:

  1. L’assenza di un itinerario almeno suggerito dentro le sale stesse
  2. L’assenza di pannelli adeguati e di fogli di sala (del tutto assenti)
  3. L’assenza di spiegazioni sul perché nella mostra certe opere erano mostrate lasciando visibile il retro e quale fosse il valore di questo retro (o verso, ciao povery)
  4. Il lessico impiegato nelle uniche spiegazioni di sala e la loro posizione nella mostra. Una in ogni sala, bilingue italiano e inglese, collocate in posizioni imprevedibili, a volte a destra, a volte a sinistra, a volte nella parete opposta alla porta di ingresso, confondendo il visitatore e costringendolo a iniziare la visita senza spiegazioni per poi interrompere il proprio itinerario e scomodare l’altrui sostando nel mezzo di una piccola sala per cercare di leggere i testi che dovrebbero guidarci o darci indicazioni sulle opere esposte.

Le sale dedicate alla mostra temporanea sono piccole e per tanto risultano subito affollate anche se i visitatori non sono così numerosi. Dentro la prima sala è possibile seguire un itinerario in senso orario suggerito dalla posizione del cartello iniziale e dalla presenza di opere installate su un grande pannello centrale che costruiscono un percorso, cosa che si ripete nella seconda, mentre nelle altre tutto diventa meno chiaro. D’altro canto proprio i pannelli centrali della prima e nella seconda sala rendono molto scomodo in sale già così piccole muoversi guardando a destra e a sinistra passando dalla parete ai pannelli. Nella prima sala è esposto poi un disegno (se non ricordo male un disegno, ma non me sono certa e non riesco a trovarlo nel sito della Galleria) il cui retro/verso presenta una specie di tavolozza di colori a olio: la carta fu utilizzata evidentemente in altri momenti con altri fini, come carta su cui fare delle specie di prove di colore, ma nell’unico testo presente in sala non c’è nulla che vi faccia riferimento, perdendo un’opportunità di parlare di tecniche artistiche, di materialità della costruzione dell’opera, di allestimento anche, perché no?… Altrimenti, perché farci vedere il verso?

Nella mostra sono presenti in prevalenza opere di Timoteo Viti e di Girolamo Genga (gli “amici di Urbino”) così come opere di Francesco Francia ed altre, tra cui dei singolari ritratti del Perugino che purtroppo non vengono minimamente contestualizzati né descritti, di modo che il motivo della scelta delle opere e la loro relazione con Raffaello risulta labile e difficile da cogliere, se lo sguardo non è quello molto affinato di una persona che ha molta dimestichezza con il linguaggio visivo del XV e XVI secolo.

Vorrei sottolineare che non mi aspetto né desidero che un museo mi proponga un itinerario pre-configurato quando visito una mostra o una collezione, ma se si sceglie di trascurarli intenzionalmente, l’intero impianto dell’esposizione deve presentarsi differente e lasciato alla interpretazione intuitiva e rizomatica del visitatore. In questo caso la geografia e la cronologia erano sì invece gli assi strutturanti la mostra, ma non erano esplicitati adeguatamente, soltanto accennati a volte e l’allestimento secondo me ha pregiudicato fortemente la comprensione del discorso storico-artistico che sottosta la curatela, e non so se questo fosse intenzionale. Ne ho capite parti solo in un secondo momento leggendo questa intervista con l’ex direttore della Galleria Peter Aufreiter.

A proposito di comprensione lessicale pura e dura, ho trovato questo testo della penultima sala, (l’unico, ripeto, uno in ogni sala) particolarmente emblematico della museografia intera della mostra:

Questa ricostruzione dell’imponente ancona, oggi perduta, che incorniciava la Disputa dei Dottori si basa sulle indicazione contenute nel contratto di allogagione dell’opera sottoscritto da Genga il 12 settembre 1513.”

il pannello dell’allogagione.

E mi chiedo: perché le curatrici hanno scelto di impiegare termini desueti come “Allogagione” indicato nel dizionario Treccani come l’antico lemma per “allogazione”, già di per sé difficile al posto di “commissione”, e “Ancona” al posto di pala d’altare? Se nel caso di allogagione proprio non mi spiego i motivi che possano averle portate a questa scelta, il tecnicismo ancona potrebbe avere la sua giustificazione, dato che una ancona diventa pala d’altare se inserita in una fittizia struttura architettonica, ma appunto, se non si trattava di pala d’altare, perché sprecare l’opportunità di indicare le differenze tra le due e aggiungere conoscenza ai propri testi per diffondere cultura invece che rendersi incomprensibili? Mi chiedo: il lessico scelto è dovuto al fatto che i curatori sono prevalentemente accademici e non sanno parlare con il pubblico di un museo? Sono sicuri di chi vada alle loro mostre? E chi vogliono che vada alle loro mostre? Dovrebbero forse riconoscere di non saper scrivere con un lessico adeguato ad una mostra che viene annunciata per radio, in treno, su banner online in giro per il Paese e porta un titolo che più friendly e gggiovane non si può e far invece lavorare mediatori e divulgatori in questi ruoli? Perché questa incoerenza? Con che finalità? Io non sapevo cosa fosse una Ancona, eppure ho una laurea in Lettere moderne e una in Studi museali (che non è Storia dell’arte né Conservazione dei beni culturali).

Assomiglio al pubblico cui questa mostra si rivolge? Credo di sì, ma forse avrebbero voluto avere anche più visitatori, o forse forse, il mio timore è che nessuno abbia pensato a chi sarebbe stato il pubblico della mostra o, ancora, non ci sia un vero interesse a esporre opere d’arte classica e renderle leggibili. Questo mi amareggia.

La sala del pannello della Allogagione, oltretutto, includeva una enorme Annunciazione di Girolamo Genga (parte del Trittico di Sant’Agostino di Cesena) che possiede una tale forza e potenza dinamica, con una Maria la cui gestualità ma non il volto suggerisce paura e sorpresa e con un Angelo che sta nuotando nell’aria emozionanti, ma nonostante ciò abbandonata a se stessa e credo neanche citata nel pannello di sala…

È per me difficile da credere che una mostra del genere sia stata dovuta organizzare in fretta, ma se così fosse questo la potrebbe ipoteticamente dir lunga su a) esigui finanziamenti richiesti e ricevuti dalla Galleria Nazionale della Marche per organizzarla b) la incredibile miopia della pianificazione della Sovrintendenza e della Galleria nell’organizzare in fretta la mostra c) l’intenzionalità nel volersi rivolgersi a un pubblico esclusivo di specialisti di un momento della storia dell’arte mondiale estremamente specifico, anche riconoscendo un’importanza straordinaria di Raffaello nella storia dell’arte mondiale.

E mi chiedo quindi, se la responsabilità non è stata della fretta, perché si è sprecata di nuovo un’occasione bella creando una mostra difficile da seguire e da intuire che invece sembrava voler invitare e coinvolgere un pubblico anche più amplio del solito?

Foto: i torricini che guardano verso Roma nel gelo di dicembre 2019. Dentro si trova lo studiolo di Federico, che poggia sul Tempietto delle muse e sulla Cappella del Perdono, materializzando l’unione di paganesimo e cristianesimo rinascimentali per dar vita alla vera conoscenza (infinita bibliografia ma su tutti vedi Warburg), tutte cose non spiegate né illustrate né indicate in nessun modo dentro il palazzo, inspiegabilmente, sì invece sulla pagina web della Galleria.

Micro rassegna stampa sulla mostra:

Gulbenkian, Lisbon

Actually connected audiences

Connected audience took place in Berlin last spring, a loong time ago indeed, and only now I come to write something about what gave me the strongest kick for keep on doing research and writing while there. I think the reason is that I needed more elements that would confirm that, but also more knowledgeable, competent, passionate people in the field, and I only found them in quite different circumstances.

The workshop I chose to attend was held by Christiane Birkert, Head of Visitor Experience & Research at the Jewish Museum Berlin (DE), and it was called “Visitor experience mapping”. Ms Birkert was given a huge room for a little group of about 15 people who had to concentrate and carefully listen to her voice, after she had invited us to get closer to her, because she had no mic and did not want to scream. Without any doubt for me these were by far the best 60 minutes of the whole congress. Deciding to use Powerpoint with graphs and data (YES, DATA ALWAYS MATTER) she was kilometers above any other presentation I attended over those days. In the other ones most people showcased obvious, superficial, obsolete methodologies that had seemed to be immensely innovative from a technological point of view one or two years ago (I already wrote about this) but did not add any value to our discussions.

The insights she shared with us, the research activity the Berlin Jewish Museum is doing to understand the non-visitors, the audience research they plan in order to serve better the exhibition department, the fact alone that they have a department dedicated to visitors experience, the knowledge they have been able to accumulate over time especially in regard to the emotions generated within the museum space, mostly due to the potentially tense content of their narration of history but, above all, the humbleness Ms Birkert showed. It reminded me once again how the smartest persons I ever got the chance to know have always been also the humblest.

What would you ask 7 yrs olds about the Noah’s Ark?

These were the answers.

It felt reassuring, warm, encouraging and depressing at once. I could not let go of the feeling and the light anxiety generated by the fact that I am aware that these discourses can only be done within a certain framework of wealthy, inclusive, respectful and resourceful (yes, $ or € is what I mean) societies, and are in the vast majority of Southern Europe absolutely unknown.

I sort of broke up with research, after I had the chance to speak and take part in early July to the Spanish Sociology Congress. Here, within the cultural sociology working group a young man extensively lectured the small audience about the relationship of trap music, reggae and messianism. Many people were enthusiastic about it, especially because the rest of us presented and dealt only with sociology matters without venturing too much into other areas. I remembered vividly the sense of uneasiness some academics would give me in my first University years in the Philology departments, and how little at home I felt in that confused abstraction. Where were the data? Where was the knowledge Ms Birkert shared with us? Was this what can be valued in research? Should I do the same in my PhD? Should I leave it? A whole summer did not fix it any of this yet.

Two weeks ago I did my best to try to reconcile data, museums and work, and I might have ended even more frustrated.

I participated in one Erasmus+ workshop on Youth & Museums in Madrid held by the Spanish Youth Institute, the Ministry of Culture and the National Museums. Twenty museum professionals & researchers from different backgrounds from several European countries joined the workshop, but since half of us came either from Finland or Austria, the gap I felt among those who had the privilege of having time to set the most complex questions of museum work and those who could not was even deeper. I realized later we were involved in the final phase of a broader coordinated by the Spanish national museums about “how to get young visitors to museums”. It was not mentioned anywhere in the application. This meant attend some public presentations of the different museums.

I won’t go deep into the activities directly – we participated olny to a couple, but could not get any idea of their planning since we could not speak with the teams of those museums (Anthropological and Archeological).

I just wanted to positively remember the chat we had with Clara Nchama, from the Communication Department of Museo del Traje. She, as Christiane Birkert did, was capable of showing to an attentive audience what kind of work museums in the South really can do. Honest, knowledgeable, competent, up-to-date with what museums challenges in the XXI century are, completely aware of what is was feasible to achieve with a small staff, and she achieved a lot, proposing to a young audience (the ministry wanted them to address everyone from 15 to 30…) the chance of participating into the exhibition set up. The behind the scenes of museums work, something young people might really be interested in on the short, mid and even long term.

To look up for Ms Nchama’s name on the internet took me about 5 minutes which says too much about the Spanish museum system. Her name does not even appear openly, only the email address in an obsolete webpage within the Ministry of Culture web-environment.

How can a system in which it is required to study for YEARS after completing your M.A. to pass an extremely complicated national exam to be only eligible for potential future job openings in the museum field not even highlight the names of those professional who make them stand out among a mix of not even English speaking professional?

Seriously! I know well that one part of the exam is a language exam – does it make sense that these people can translate a legal document about museums (yes, that is what the content usually is) but they cannot express themselves and present their work in front of a foreign audience (this really happened)? How poor is the knowledge among museum professionals here? It is not only a matter of means a museum has, it is also a matter of being involved in contemporary issues and methodologies, and of course, priorities within museum work.

Who stands out? Who can stand out? Those who can afford not to work for years to take an exam based on law, history and art history? Is it worth it to keep staying here and have 3, 4 jobs trying to work in the field and changing it from within, hoping to work with people like Clara, or is it a huge loss of time? Who can afford to work in museums in South Europe? And what will they ever do anyway?

What audiences can be understood if there is no intention of supporting those who do? How perverse is this?

A long winter ahead.

Picture: Museo Gulbenkian, Lisbon, last week, by me of course.

The charm of identity display

A couple of weeks ago I escaped Valencia while the city was being taken over by the local celebrations of Fallas.

While living in Spain about ten years ago, I thought very little of Fallas. Literally. I did not give too much thought to them and I only considered it a loud event to which bright Erasmus students would go to get drunk before going back home to become lobbysts or political VIPs in different countries handling the most crucial matters of our age. No need to get on any bus or train to see it. What I completely misunderstood and never bothered to even try to grasp or feel or understand was the massive support they enjoyed and how deeply rooted that was.

Then 2018 arrived and Fallas came along. I did not know the celebrations would last for weeks and they would overturn the daily life of the city. Little food trucks (the real ones) frying churros, buñuelos and any sort of edible thing from 8 am til 2 am at every corner, all sort of firecrackers at every hour of the day and the night, hoards of people ignoring basic traffic rules, let alone hygiene ones.

And the Parade for the “Flower Ofrenda“: every Fallero and Fallera of the city parades and brings flowers to a statue of the Virgin Mary on the main square. I remember coming back home from work with my bike and facing thousands of people of all ages dressed in expensive and uncomfortable traditional clothes parading through the center, and just stood there speechless. It might have been the first time I experienced a nationalistic folkloric event of these proportions. As an Italian raised in a very laic environment, I am really unprepared for this sort of events, and, I realize, I lack tools of understanding, and empathizing, I think.

With this on my mind, I went away for the weekend, and hopped on a train to the capital to visit friends. Friends have friends, and the latter ones might turn out to be curious and nice persons and all of a sudden it’s 4 am and you are talking nationalistic sentiments in Spain before the elections. It turned out the Fallas had a certain allure to them, actually quite a lot. The festivity as a shared moment through which people connect prevailed over any other nationalistic aspects, in their minds. Even though they had not lived in Valencia nor had they ever been in the city over fallas they envied it. They were longing for the common feeling of belonging to a strongly characterised place, longing for the collective identification process embodied by the attires, the objects, the shared spaces of the city being transformed in its design and traffic, and even in its possible generally accepted normative role.

To me it felt naive, almost childish at times, and it made me acknowledge once again how powerful nationalism as sentiment related to an administratively regulated area is among us, including left wing politically committed adults. It scares me but remains mesmerizing, this building of collective feelings.

Picture: YOU ARE HERE, Madrid, Centro drámatico nacional, March 2019