L’hackaton del CCCC procede, al di sopra sopra delle nostre distanze.
Preso il centro come casa, lo dividiamo in stanze e costruiamo un percorso bizzarro per il possibile pubblico del centro, a seconda della posizione o del contenuto delle sale. Il mio gruppo decide di stare all’ingresso, mediare la transizione dalla strada al museo, da uno spazio pubblico a un altro spazio pubblico che però si regge su regole diverse, incomprensibili e intransigenti spesso. E di farlo in vestaglia e pigiama, sulla porta d’ingresso del museo. Con un thermos di tè e delle tazze in mano ad accogliere i visitatori.
In 4 ore ci spartiamo i ruoli, studiamo alla svelta lo spazio (la soglia, la biglietteria, i corridoi e i chiostri di questo ex-convento), raccogliamo le informazioni essenziali che ci servono per accompagnare il pubblico, scegliamo i ritmi del discorso e dell’introduzione, facciamo delle prove, e finalmente lo presentiamo a Christian e Beatriz. L’idea li fa ridere ma non ce la cancellano, ci suggeriscono dei cambi, il gruppo tuttavia si sente criticato e si innesca una nuova dinamica vagamente conflittuale, dovuta al fatto che per questa attività tutt* eccetto me sarebbero stat* valutat* ai fini del Master che frequentavano.
Una volta in atto però, il nostro gruppo fa in realtà un ottimo lavoro, perché andiamo d’accordo e ci dividiamo i ruoli con serenità senza troppi egocentrismi, coinvolgiamo visitatrici e visitatori sin dal portale d’ingresso, dove abbiamo messo un tavolino per il thermos e siamo in tre, in vestaglia e attacchiamo praticamente bottone con chiunque.
La cosa è in realtà abbastanza facile, l’ingresso è gratuito, siamo in centro storico, è un fine settimana pre-vacanze, siamo in pigiama e facciamo ridere, siamo simpatiche e totalmente calate nel nostro ruolo (cosa fondamentale) e invitiamo persone che passeggiano a entrare nel museo. Cerchiamo di raccogliere gruppi di circa 10 persone e le facciamo passare per i due chiostri, di cui tratteggiamo la storia passata e recente per poi condurli alle sale espositive, dove li lasciamo nelle mani di altre persone a visitare le due temporanee del CCCC. La finzione un po’ magica un po’ fiabesca della casa (cui il pubblico si lascia per fortuna andare) viene smarrita in questi passaggi, e in particolare viene del tutto fatta cadere da un gruppo che interrompe il discorso. L’hackathon non consente di testare più volte e nella sua totalità la visita e di evidenziare le cose che vanno limate, che consisterebbe nel valore profondo della mediazione.
E quindi: l’hackathon è solo una metodologia, un modo che funziona se le conoscenze delle persone coinvolte si completano l’un l’altra, perché in 72 ore quello che non so io lo metti tu, che sia la vestaglia, la conoscenza della storia di un luogo, la capacità di recitare o di studiarti un’opera. Se questa complicità manca, o se tutte le persone coinvolte sono impreparate, purtroppo il senso stesso di una cosa fatta in fretta per spremere e raggiungere nel più breve tempo possibile un obiettivo non c’è, resta solo una esperienza abbozzata e un po’ pericolosa, dato che sposta la responsabilità di quello che non si fa come istituzione su delle persone che non hanno ancora la capacità di non allontanare il pubblico dal proprio spazio.
Nel nostro caso e nella mia esperienza resta la sottile e importante capacità di Christian e Beatriz di guidare un gruppo eterogeneo lungo un percorso difficile e da fare molto in fretta…
Foto: un altro angolo del primo chiostro del CCCC