Dall’orecchio alle mani

Conclusasi il giorno del mio compleanno, la mostra su Constantin Brancusi presso Bozar, a Bruxelles, sono riuscita a visitarla per un pelo il primo febbraio*, da sola.

La mostra era cara e facile, strutturata su linee cronologiche e tematiche, e scivolava via svelta, dietro alla voce dell’audioguida: gli spazi del Bozar sono ampli e la disposizione permetteva di muoversi con semplicità, ma soprattutto io avevo tutto il tempo del mondo per fermarmici a riflettere su un paio di cose rispetto a come visito le mostre.

L’audioguida è un tema a sé negli studi di educazione museale e nella prassi dei musei (qui una cosa del Met sulle proprie) e io cerco sempre di ascoltarle.

A livello astratto e di analisi museologica l’audioguida condiziona, orienta e costringe lo sguardo, esplicita il discorso che la museografia non ha definito del tutto, costruendo la gerarchia visuale e prossemica che seguirà il pubblico, e può facilmente essere usata per indirizzare i flussi dei visitatori. Dal punto di vista pratico e estetico l’audioguida è spesso brutta, grande, senza istruzioni e con molti tasti inutili; quando è attiva crea un rumore di sottofondo che contrasta con il silenzio degli spazi museali, ostacola la visita di chi si muove libero, crea file o raggruppamenti di visitatori attorno alle opere che hanno il numerino e, essendo molto simile a un telefono, è facile che sia percepita come un elemento di distrazione.

Questo, fondamentalmente, significa che l’audioguida è spesso ciò che marca la differenza tra il pubblico che crede di conoscere già cosa andrà a vedere, che non ha bisogno di nessuna chiave di lettura (o meglio, va a una mostra o perché la vuole criticare o si sente identificato nella stessa visione del curatore. In qualsiasi caso, per questi visitatori spesso le opere parlano da sole) e chi invece va alle mostre e si affida alle parole di un altro (secondo l’altezzoso punto di vista del primo gruppo), dimostrando ignoranza del soggetto. Tutti siamo al museo per farci vedere, ma ad alcuni importa esserci per sembrare il più intelligenti possibile.

L’audioguida a Bozar era gratuita e offerta all’ingresso delle sale, non aveva numeri né tasti, e la sua insidiosità nel dirigere la mia visita era un po’ più difficile da mettere a fuoco: wireless e contactless, bastava avvicinarla (passando quindi magari distrattamente vicino a un’opera marcata con un bollino) per attivarla. Raccontava dettagli sulle opere e sulla vita di Brancusi, come sempre, ma i testi erano piuttosto brevi. Il massimo della discrezione e dell’eleganza, direbbero certuni (..).

Avere una audioguida quando visito un museo, un sito patrimoniale o una mostra è per me un fortissimo condizionamento, e ho un rapporto molto conflittuale con tutte. Da una parte mi sento obbligata a ascoltare tutto ciò che posso sia per rispetto del lavoro altrui sia perché penso che potrebbe esserci uno stimolo di riflessione interessante nelle parole di critici, curatrici, storiche che hanno preparato i testi; d’altro canto mi infastidisce dovermi concentrare per tanto tempo stando immobile, e questo è un mio problema perché se cammino mi distraggo con qualsiasi altra cosa veda – persona, drappo, luce, pianta. Per questo quindi l’audioguida finisce per vincolare la mia libertà di movimento e mi risulta scomoda.

La stessa libertà di movimento (o la sua assenza) insieme al limite posto alla spontaneità del visitatore che si genera a causa della presenza degli originali o di materiali fragili sono il leit motiv delle mie visite a musei da diverso tempo, dato che sono esemplificative del potere esercitato dal museo come ecosistema.

La contrapposizione tra due sistemi, due pubblici, due proposte di didattica artistica e accrescimento della sensibilità empatica non avrebbe potuto essere più nitida nella mia immaginazione perché l’ultimo museo che avevo visitato prima di Bozar era il Museo Tattile Omero ad Ancona, in cui avevo messo la mani dappertutto, mentre qui, di fronte a quelle superfici liscissime a portata di polpastrello, non potevo sfiorare nulla..ma per adesso pausa.

* Bozar è un centro multidisciplinare progettato negli anni 20 del Novecento da Victor Horta e funge ora come aggregatore di eventi culturali di lusso tradizionali (concerti di musica classica e lirica, mostre di arte figurativa) e contemporanea (sponsored corporate events…). Lo dirige un CEO – direttore artistico. Mi ricorda sempre il Martin-Gropius Bau di Berlino, ma non è pubblico o retto da una società in cui il senato locale e lo stato hanno una partecipazione.

Immagine: dalla mostra a Bozar ma in prestito dal Centre Pompidou, Constantin Brancusi come lavapiatti nel 1904 a Parigi, dimostrando una incredibile somiglianza con un mio amico rumeno.